Relazione tenuta il 18.10.2002 alla Facoltà Ponteficia Teologica di Sicilia, Palermo, e il 19.10.2002 alla Chiesa di Sant'Agostino, Trapani.
Traduzione di M. Gulli.
Foto di M. Weerning (von Brück a Erice, 20.10.2002)

Il dialogo interreligioso: e' possibile?

di

Michael von Brück

Si devono distinguere almeno tre differenti concetti di tolleranza, quando questo tema deve essere esaminato nella sua connessione con le religioni:

Tutti e tre questi concetti hanno avuto un ruolo nella storia della religione, ma soltanto nell’ultima accezione tolleranza può risultare significativa come comportamento fondamentale per il dialogo interreligioso/interculturale. La conferenza giustificherà questa affermazione.

1. Considerazione preliminare

Le religioni si sviluppano in contesti geografici e politico-culturali. Per ciò che concerne la storia ricostruita su base documentaria degli ultimi 5 millenni, possono essere distinti, generalizzando molto, quattro modelli, che contrassegnano epoche i cui margini anche si sovrappongono: (1) l’epoca dell’isolamento; (2) del confronto; (3) della tolleranza (coesistenza); (4) della cooperazione (proesistenza). Per ‘isolamento’ intendo lo sviluppo separato dei popoli in via di progressiva sedentarizzazione, nel III e II millennio a.C., lungo i grandi fiumi Nilo, Eufrate e Tigri, Indo, Gange e Huang Ho. Nella misura nella quale queste città -stato crebbero fino a diventare potenze territoriali, si impadronirono di altre culture e formarono imperi (Grecia, Persia, Roma, la Cina degli Han, l’India dei Maurya), queste culture furono attraversate da conflitti per il dominio, che coinvolsero anche le religioni: gli dei dei vinti o entrarono a far parte dell’impero celeste vittorioso o furono esclusi. Solo raramente, come sotto Ashoka in India nel III secolo a.C. o in parte nella pax Romana, si pervenne a una tolleranza nei confronti di altri dei. Il modello o l’epoca (3) della tolleranza ha assunto in culture diverse radici e configurazioni differenti, mentre a partire dal XIX sec., in particolare con il parlamento mondiale delle religioni convocato a Chicago nel 1893 in considerazione della globalizzazione economica e politica, e in modo più deciso dopo le devastanti guerre mondiali e dopo il tracollo del colonialismo dopo il 1945, guadagnano progressivamente forma modelli di cooperazione e di proesistenza, e cioè di sostegno reciproco, di disponibilità all’aiuto e all’apprendimento da parte delle religioni l’una dall’altra, contro i comuni nemici prima del comunismo, poi del materialismo consumistico e del pericolo di una guerra mondiale o della catastrofe ecologica.

2. Tolleranza nelle religioni mondiali

Per religioni mondiali intendo quei sistemi culturali che non sono legati a determinate etnie. Tratterò soltanto di tali sistemi, e verranno quindi tralasciate per motivi di tempo sia la storia dell’incidenza culturale del confucianesimo e del taoismo, sia quella dell’ebraismo missionario.

Induismo e buddismo

Induismo e buddismo affermano la dottrina di molti cicli di esistenza sia del mondo che dei singoli esseri umani. Le caratteristiche con le quali una persona nasce, e quindi anche la religione alla quale questa persona aderisce, sono determinate dal suo karma, sono cioè conseguenza delle sue azioni precedenti. Per questo motivo si è sviluppata una relativa serenità distaccata nei confronti della molteplicità delle religioni, dei culti e delle visioni del mondo. Mentre singole scuole filosofiche dibattevano accanitamente e avanzavano, e avanzano, pretese di esclusività, si esercitava tolleranza nei confronti di usi culturali e di convinzioni religiose. Sono possibili molte spiegazioni di questo atteggiamento: 1. nel Rg-Veda si afferma che l’Uno (tad ekam) viene venerato sotto molti nomi; 2. l’Uno si manifesta come molteplicità, e in questo caso alla molteplicità deve essere riconosciuto minor essere che all’Uno (maya). Gli esseri umani nella loro ignoranza vedono solo molteplicità e differenza, mentre il sapere (jnana) consiste proprio nella conoscenza dell’unità nelle e dietro le apparenze. Chi vive e argomenta all’interno della molteplicità merita tolleranza nel senso di sopportazione, perché non ha ancora raggiunto il sapere, mentre chi lo ha raggiunto ha superato la differenza e non ha più bisogno di tolleranza. Ciò però non vale nell’ ambito sociale, che - certamente per l’induismo - è suddiviso in modo netto mediante le barriere fra le caste. In questo caso non si tratta affatto di tolleranza, bensì di una rigida osservanza dell’ordine gerarchico, di cui non è consentita infrazione. Le infrazioni vengono punite rigorosamente. Il buddismo ha tentato di spezzare le barriere fra le caste e di porre come principio della propria dottrina sociale la capacità di buddità da parte di ogni essere umano. Ogni non-buddista merita tolleranza inclusivista, e cioè ogni essere umano è potenzialmente Budda, anche se (ancora) non lo sa. E’ da intendere in questo senso il fatto che il Budda abbia usato molti mezzi appropriati (upaya) per condurre tutti gli uomini alla conoscenza a seconda dei condizionamenti specifici a ciascuno (e di cui fanno parte anche quelli linguistici, culturali, religiosi). La conoscenza consiste essenzialmente nella comprensione della relatività delle proprie proiezioni e dei propri costrutti concettuali. In questo caso tolleranza può essere interpretata come atteggiamento provvisorio di colui che non sa, nei confronti di se stesso e nei confronti degli altri. Considerato in prospettiva storica, il buddismo si è dimostrato, per lunghi tratti della sua storia, come effettivamente tollerante sul piano religioso, anche se ciò non significa che interessi istituzionali dei templi e dei governi non abbiano fatto scoppiare guerre di repressione.

Islam

L’Islam si presenta con una molteplicità di immagini. Le religioni del libro hanno potuto in un certo senso essere provvisoriamente accettate, anche se l’Islam reclama per sé la rivelazione definitiva, la cui affermazione e diffusione potevano però essere affidate in ultima istanza a Dio. Per questo motivo il modello dell’Islam è stato in minor misura quello dell’immediato impegno religioso missionario, e più invece quello della espansione culturale e politica. Esaminati in dettaglio però i modelli sono molto più complessi, e jihad in quanto ‘sforzo religioso’ ha anche sempre significato guerra di conquista, che però certamente doveva essere caratterizzata dalla misura proporzionata dei mezzi. Allo stesso tempo la impossibilità di disporre di Dio (Unverfügbarkeit Gottes) e la predestinazione sono enunciati centrali della teologia islamica. Se Dio predetermina il destino, l’uomo non può fare altro che piegarsi ad esso, e ciò significa che anche il destino religioso è volontà di Dio, e la molteplicità delle religioni rappresenta una messa alla prova di pazienza e tolleranza. Tendenze per siffatte interpretazioni si trovano nel Corano e soprattutto poi nel Sufismo e in Ibn al Arabi. All’interno dell’Islam è stato possibile che si tollerassero diverse concezioni del diritto, nella misura nella quale potevano richiamarsi ad una ermeneutica valida del Corano e ad una guida giuridica divina.

Cristianesimo

Il cristianesimo della prima generazione credeva di vivere in un’epoca di fine della storia. Il ritorno di Cristo si riteneva sarebbe avvenuto molto presto, e in attesa di ciò l’evangelo doveva essere annunciato a tutti i popoli fino allora conosciuti (essenzialmente quelli del Mediterraneo). Ciò era nella persona di Gesù una promessa personale, non una verità istituzionale. Tolleranza non era la accettazione pragmatica di ‘falsi’ dei, bensì la indulgenza ospitale nei confronti del peccatore che sbaglia e si perde. Solo quando il cristianesimo divenne nel IV sec. religione di stato e l’impero mondano fu definito un corpus christianum, la configurazione politico-sociale poté essere caricata sempre più in senso religioso e la civitas dei e la civitas terrena poterono essere amalgamate l’una con l’altra. Finché l’imperium christianum, o ‘ l’occidente cristiano’, non si frantumò con le divisioni confessionali del XVI sec. La divisione cui presto si pervenne fra Chiesa orientale e Chiesa occidentale ebbe altre cause e si compì per molte ragioni lungo la linea di faglia fra Roma e Bisanzio; per questo non fu percepita come problema fondamentalmente filosofico-teologico, che riguardasse la autocomprensione del cristianesimo. Adesso però, nel XVI e nel XVII sec., nessuna delle due parti fu in grado di imporsi. Il primo principio di tolleranza – cuius regio eius religio – fu originato dal pragmatismo politico, che era divenuto necessario di fronte all’autodistruzione dell’Europa centrale nella guerra dei Trent’anni (1618-1648). Questo pragmatismo politico poteva fare leva per l’aspetto teologico sui modelli concettuali che erano stati elaborati nel tardo medioevo nel confronto con l’ebraismo e l’Islam, per es. da Raimondo Lullo e da Nicola Cusano: una religio in rituum varietate. Qui il concetto di religione viene dapprima introdotto come concetto generale sovraordinato, in modo da poter tollerare almeno concettualmente le cristianità in conflitto. L’illuminismo poi adopera e insedia la ragione e la religione razionale come realtà che sta sopra la pluralità fattuale delle religioni. Questo è il risultato fino ad oggi: tolleranza in senso moderno è un concetto dell’illuminismo che risponde alla irrisolvibilità dei conflitti all’interno del cristianesimo, non in modo a-religioso, ma trans-confessionale. La scoperta della religione e della storia delle religioni come disciplina accademica – in cui le religioni non vengono trattate in senso normativo, ma in senso descrittivo, e quindi tolleranza conoscitiva è punto di partenza e scopo dello studio – comincia, come già detto, nel XVII sec., poiché la ‘civiltà unitaria’ (Ernst Troeltsch) del cristianesimo si era spezzata. In altri termini: la disciplina accademica ‘storia delle religioni’ o ‘scienza della religione’, che poi fiorì soprattutto nel XVIII e nel XIX sec., dapprima con la scuola storico-religiosa all’interno della teologia protestante, poi come disciplina autonoma e occasionalmente antiteologica, fu il tentativo di rendere possibile alla società un consenso religioso sui valori, che non poggiasse sulla affermazione della rivelazione, ma sulla ragione comunicativa in quanto era diventato possibile intendere la dipendenza reciproca e la condizionatezza storica delle religioni come sottofondo e retroscena per una tolleranza frutto di riflessione.. In altre religioni non si trova storicamente nulla di paragonabile a questi sviluppi, ma certamente le altre religioni sono poste oggi a confronto con questa storia del cristianesimo e con le sue conseguenze, e vi reagiscono. Ma su questo tornerò nel seguito.

3. ‘Tolleranza’ nella modernità

Nel saggio ‘From Secularity to World Religions’ (1980)1 il sociologo della religione Peter L. Berger distingue due caratteristiche della modernità e della post-modernità: secolarizzazione e pluralismo. Quest’ultimo, così giudica Berger, è più importante come sfida alle religioni classiche, e quindi anche per la teologia. Il contesto interreligioso pone per sé il problema della pluralità di religioni, pretese di verità ecc. E ciò non soltanto in un senso esplicitamente religioso, poiché nel paradigma del post-moderno si tratta del pluralismo di percezioni, costrutti di realtà e modelli etici. La teologia ha, fra le altre caratteristiche, anche questa componente definitoria e questa finalità: di porre la questione della verità e di sforzarsi di indicare le condizioni della questione della verità, relative alla sociologia del sapere, in date società. La teologia è quindi più che una traslatio o una traduzione di una tradizione: essa è anche costruzione del presente in quanto realtà, e ciò inquadrato all’interno di una massima di senso con validità conclusiva.. Questo stesso è naturalmente un enunciato che esplicita condizioni di senso della post-modernità.

In questo senso tenterò di (a) analizzare l’orizzonte teologico della questione in relazione alla condizione di pluralismo in senso ampio, poi di (b) proporre una descrizione della situazione dei parametri teologici classici (percezione, realtà, coscienza) all’interno della prospettiva costruttivista indicata, da cui (c) verranno dedotte le conseguenze per la questione teologica della verità nelle condizioni di pluralismo. Conclusivamente vorrei indicare alcuni punti di discussione che risultano dall’analisi.

3.1. L’orizzonte teologico della questione in considerazione del pluralismo

1. Spazi religiosi geograficamente separati, che hanno conservato impronte culturali corrispondenti in modo relativamente forte, sono ormai soltanto eccezioni. Prospettive interne ed esterne di socializzazioni religiose si intrecciano l’una con l’altra in strutture sempre più complesse. Non soltanto la comunicazione a dimensione mondiale di modelli di valori sanzionati religiosamente è evidente, ma sempre più nelle società pluraliste o anche orientate al consumo tecnologico vengono a incontrarsi e scontrarsi disparati modelli, religiosi culturali e linguistici, di socializzazione e di valori. ‘Religione’ è non soltanto come già da sempre, bensì sempre più e con nuova forza a livello mondiale, un fattore di formazione di identità per individui e gruppi. I modelli e le regole del gioco per l’incontro con l’altro (in cui ciò che è proprio riceve nuova forma) diventano però trasparenti soltanto raramente. Così si pone la questione se ci debbano essere regole globali per la comunicazione, che siano accettate universalmente e che possano essere rivendicate per via legale in rapporto a un centro. Ciò sarebbe possibile se ci fossero valori globali, poiché solo sulla base di un consenso in rapporto a regole sarebbe possibile mediare un dissenso su questioni materiali in modo tale che possa essere affrontato e risolto senza ricorso alla violenza.

2. Linguaggi e culture differenti organizzano la percezione della realtà in modo diverso e costruiscono perciò differenti sistemi categoriali. Da ciò risulta un meta-discorso sulle condizioni della comunicazione interculturale, in cui un modello non è allo stesso tempo giocatore e criterio. Questo discorso non farà soltanto venire alla luce la molteplicità materiale delle fondazioni di valori, e quindi rendere plausibile la percezione della pluralità di principio dei modi di dar forma all’esistenza umana, ma può anche indicare come nella dialettica di dissenso e consenso nasca un processo interculturale di formazione di valori.

3.2. Fondamenti per l’orizzonte della questione teologica della verità.

1. La storia umana è lotta fra verità, in cui ogni percezione e la conoscenza da essa risultante rimangono frammentarie, relative, particolari.

Culture e religioni sovraregionali dell’umanità hanno sviluppato la loro identità nella reciproca concorrenza e si sono stabilizzate delimitandosi di volta in volta rispetto all’altro e allo straniero. La produzione di corrispondenti sistemi di percezioni e di dottrine si mostra storicamente ad es. nella dinamica della delimitazione del cristianesimo dall’ebraismo e dalla filosofia ellenistica, nel rapporto dell’Islam con l’ebraismo e il cristianesimo, e anche nella delimitazione del buddismo dall’induismo e inversamente. I modelli percettivi delle religioni e la metodica della ricerca della verità sono condizionati storicamente. A questo riguardo ci sono nella storia europea molti modelli che si differenziano dalle epistemologie di altre culture. Per la storia europea distinguerei tre fasi:
(a) quella ontoteologica dai presocratici fino ai realisti del medioevo.
(b) quella centrata nella soggettività dai nominalisti fino all’idealismo tedesco.
(c) quella successiva analitico-linguistica.

Fase ontoteologica
Per i greci e la teologia cristiana fino ai nominalisti c’era una ontologia che poteva enunciare qualcosa di universale sulla realtà. Parmenide, Platone e Aristotele presuppongono una continuità o almeno una corrispondenza di essere e pensiero nel logos o nel nous. Strutture stabili e affidabili come le cose possono essere di conseguenza conosciute nel loro essere e nelle loro proprietà (Sosein), in quanto la verità diviene possibile attraverso la partecipazione alle strutture eterne. Un enunciato che si è mostrato una volta vero è perciò vero per sempre. Tommaso d’Aquino 2 concepisce la verità come adaequatio intellectus et rei, e fa parte senza soluzione di continuità della tradizione platonico-aristotelica. Nonostante le differenze, per la teoria della corrispondenza vale il principio: l’accordo fra intellectus e res presuppone che la cosa – così come essa è – possa mostrarsi alla ragione (almeno in linea di principio), e la validità di questo presupposto era fuor di dubbio.

Fase centrata nella soggettività
Questi fondamenti vennero infirmati dal nominalismo, dalle teorie scettiche successive, nel nostro secolo anche dalla fisica. Tutti i concetti, i pensieri e le rappresentazioni che noi adoperiamo, non avevano più fondamento in un regno delle idee al di là dell’uomo, come si riteneva dopo Platone, ma nello spirito umano. Ogni comprensione non rinvia più l’uomo a Dio o all’essere, bensì all’uomo stesso, alla soggettività. Anche se questa soggettività viene fatta culminare conclusivamente in un Io assoluto o in uno spirito del mondo, come fanno Fichte e Hegel, la verità può cristallizzarsi soltanto nella identità-di-sé del soggetto, anzi, la certezza-di-sé dell’uomo diviene identica con il fondamento della verità – cogito ergo sum. In fondo non c’è più alcuna corrispondenza fra essere e pensiero, bensì soltanto la certezza-di-sé del soggetto.

Fase analitico-linguistica
Quando nella nuova teoria della conoscenza il concetto di verità è esaminato e discusso per lo più nel contesto della filosofia del linguaggio pragmatica ed ermeneutica, ne risultano la teoria semantica della verità, la teoria del consenso e della corrispondenza ecc. Esse hanno un elemento comune: ciò che noi sappiamo, lo sappiamo soltanto in quanto abbiamo un linguaggio. Al di fuori dell’orizzonte del nostro linguaggio non c’è (per noi) nulla, e quindi neppure alcuna verità. Formulato classicamente: «I limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo» (Wittgenstein).
Con ciò non si intende affermare però alcuna arbitrarietà o discrezionalità, poiché l’individuo non crea il linguaggio, ma si trova già all’interno di un linguaggio attraverso una comunicazione intersoggettiva. Però ci sono molti linguaggi, e il limite di questo concetto di comprensione e di verità è il limite del linguaggio, cioè della cultura. La comprensione avviene in un contesto ermeneutico, in una comunità linguistica, più di questo non si può dire. Per questo non ci può essere alcuna verità assoluta, perché non c’è alcun linguaggio assoluto. Il fatto che noi in generale crediamo di poter conoscere qualcosa al di là del linguaggio deriva dalla partecipazione di noi tutti allo stesso flusso di coscienza.

Per riassumere direi:

La verità è vincolata al linguaggio. Tutto il linguaggio umano è metaforico, e cioè i concetti tempo, spazio, causalità, materia, essere, coscienza, verità, ecc. sono metafore che si riferiscono l’una all’altra e dipendenti l’una dall’altra. Sono non soltanto descrittive, ma implicano una riflessione che è volta per volta dipendente dalla coscienza e contestuale. Il linguaggio non comunica soltanto informazioni su qualcosa di dato, ma evoca immagini, motivazioni ecc. Ne risulta che riguardo al concetto di verità non è in gioco e non si tratta soltanto dell’accordo del pensiero con i fatti esterni, bensì di comunicazione e comunione.
(L’osservazione e la considerazione di un evento è quindi questione di prospettiva. La proposizione ‘il sole tramonta’ è vera o falsa volta per volta a seconda del sistema di riferimento: pongo come criterio la prospettiva limitata dell’orizzonte, allora è vera; scelgo come criterio i movimenti dei pianeti intorno al sole nello spazio tridimensionale, allora è falsa; la considero entro la prospettiva dello spazio curvo, diventa un caso speciale relativo ecc. Ma la proposizione non può essere vera e falsa allo stesso tempo entro lo stesso sistema di riferimento. Ne consegue che enunciati veri – all’opposto di quelli falsi – sono possibili quando è indicato il sistema di riferimento. Ci sono verità relative.)

2. L’attuale pluralismo della verità è da un lato il risultato del processo storico-scientifico, dall’altro conseguenza della modernizzazione sociale e dell’esperienza della convivenza interculturale.

Il moderno liberalismo ha una forte radice nelle esperienze e negli ordinamenti politici che si sono formati dopo le guerre di confessione del XVII sec. Attraverso la appartenenza confessionale regolata dal principio dello stato territoriale – cuius regio eius religio – divenne chiaro che la verità non era più conoscibile in modo assoluto attraverso un Dio conoscibile senza ambiguità e attraverso le pretese che ne potevano essere derivate, ma che nella strumentalizzazione della politica di potenza essa poteva essere conosciuta solo in modo frammentario e relativo. La verità proprio nel senso religioso aveva bisogno dell’accordo e del consenso della comunità in questione, se non doveva essere sacrificata al calcolo politico.
Veniva dato così il presupposto per correlare la questione della verità determinata religiosamente alla virtù della tolleranza 3. La confessione religiosa era adesso – presupposti il coraggio personale e la indipendenza economica – risultato di una decisione consapevole, che appare oggi, nelle società urbanizzate e multiculturali, come «imperativo eretico», cioè come necessità dell’atto della libertà di scelta 4.
La libertà di scelta presuppone la comprensione, e la comprensione è condizionata culturalmente, o anche interculturalmente, poiché dipende dalle interpretazioni linguistiche. Sul piano teoretico noi sappiamo che nessun fenomeno storico, quindi anche nessun simbolo, nessun linguaggio, nessuna religione, è universale, ma sul piano pratico tutto ciò è a causa del problema dell’identità una visione e valutazione delle cose spesso difficile da accettare.
Vero è un enunciato religioso solo nel caso in cui in esso qualcosa di incondizionato si rivolge all’uomo interpellandolo. In questo caso si tratta della certezza che l’incondizionato è proprio così come è, e che appunto questo essere-così è in ultima analisi bene .Questo è ciò che noi possiamo chiamare la dimensione religiosa della verità. E così la parola ebraica ‘emeth’ significa la fedeltà e l’affidabilità di Dio nella sua verità, a cui partecipa un uomo, in quanto peregrina nella ‘emeth’ di Dio (Ps. 26,3; 86,11 e altrove). «Verità di Dio» non è quindi un enunciato adeguato sull’essenza di Dio, bensì – in quanto genitivus subjectivus – è la espressione-di-sé di Dio, di esprimersi in costanza e fedeltà nel modo in cui Lui stesso è. Nonstante la conoscenza della relatività degli enunciati, l’identità delle religioni dipende da tali o simili assoluti.
Verità perciò non è da porre in identità con comprensibilità, bensì è in ultima analisi non disponibile5. Questa dimensione esistenziale-religiosa della verità può venire realizzata nel rito, nella decisione etica e nella conoscenza delle strutture del necessario-concettuale. Ognuno di queste tentativi è dipendente dalle percezioni condizionate culturalmente e dalla comprensione resa relativa del linguaggio, ma ciò non vuol dire che esso è arbitrario o discrezionale. Noi dobbiamo infatti tener fermo un principio che anche nel discorso interreligioso-interculturale deve essere universalmente accettato per rendere possibile la discussione, il principio di coerenza.
Su questa base, conformandosi a questo principio un enunciato può – almeno provvisoriamente – venire considerato vero in senso relativo quando è coerente. Un enunciato è coerente, quando si inserisce senza contraddizione nel tessuto complessivo di un sistema di comprensione. Certo però questo principio di coerenza è una condizione necessaria ma non sufficiente della verità, poiché non può fondare ciò che deve essere compreso attraverso un tessuto complessivo o una connessione di proposizioni, e cioè di nuovo: l’intero o il singolo elemento viene presupposto, non però pensato o fondato. Rimane una statuizione relativa. Ed inoltre il principio di coerenza è insufficiente, poiché ad es. qualcosa di palesemente immorale come l’uccisione può all’interno di un sistema religioso-ideologico essere reso del tutto plausibile ed essere fondato senza contraddizione.

Abbiamo bisogno quindi di ulteriori criteri , che rendano possibili i giudizi.

A questo scopo indicherei il criterio della integrazione:

3. Il criterio della integrazione afferma che enunciati e forme di comportamento possono essere inseriti nel sistema relativo di valori di una specifica religione o società. Un sistema relativo è però fondamentalmente aperto.

Questa apertura è una apertura per l’incontro, senza porre fuori gioco l’altro di fatto o in modo sottile. Poiché se lo si volesse porre fuori gioco, ciò sarebbe una autocontraddizione, in quanto verrebbe reso nullo il presupposto di tutto lo sforzo nei confronti di uno scambio dialogico. Questa apertura per l’incontro è un aspetto dell’amore. Un conflitto può diventare necessario, ma esclusivamente e soltanto a causa del criterio dell’amore, che è certamente concreto in ogni religione in un suo modo proprio. In ultima analisi il problema della vita sfocia nella ricerca di un fine ultimo, il nirvana o il regno di Dio o come altrimenti lo si possa chiamare. Questo fine ultimo da cercare in modo sempre nuovo per la strutturazione della propria vita nel dialogo e anche mediante confronti e ricomposizioni con altre esposizioni, enunciazioni e rappresentazioni di valori è ciò che qui viene chiamato integrazione.
In termini cristiani la conoscenza della verità è aspetto che riguarda il futuro escatologico6. Noi però adesso abbiamo già il criterio dell’amore che diviene cosciente in una modalità relazionale e può portare soltanto a decisioni relative. Ma proprio di questo si tratta nel conflitto produttivo all’interno del dialogo interreligioso.
Se noi ad esempio proponiamo con buone ragioni di ritrovare oggi questo criterio, per quanto riguarda l’ambito politico, nella formulazione dei diritti dell’uomo, ciò non è un enunciato assoluto e una pre-condizione per il dialogo, ma una proposta di discussione che è aperta al discorso con altri valori. Altre tradizioni troveranno altre motivazioni e giustificazioni, e ciò cambierà anche la nostra comprensione dei diritti dell’uomo. Ciascuno dei partners potrà e dovrà presentare e sostenere la propria comprensione della verità e dei criteri di una autentica esistenza umana in modo libero e certamente anche andando all’offensiva. Verità percepita e comprensione non le abbiamo però in altro modo e in altro luogo se non all’interno di questo atto dialogico, in cui ciascuno esamina, mette alla prova e rimette daccapo alla prova i suoi criteri.

4. Il comportamento che ne risulta sarebbe la tolleranza, che però include la lotta per la verità, un discorso volto alla coerenza con l’obiettivo della ricerca della verità.

Un discorso dialogico però non può più, certamente, servire al conseguimento della propria identità ai danni dell’altro. Per questo obiettivo ho proposto, in analogia al concetto politico-militare della partnership per la sicurezza, il concetto di partnership per l’identità.
Tolleranza non è un lasciar fare, ma il garantire lo spazio per l’altro e per me stesso in considerazione della diversità dei partners nel colloquio e nell’incontro. Tolleranza ha bisogno della critica reciproca e solidale, se la religione non deve diventare irrilevante.
Una tolleranza dialogica supera il venir meno di parola e di espressione, in quanto porta a coscienza le percezione e le norme di valore di volta in volta in questione dei partners, ne esamina la coerenza e chiarisce se esse pongono domande adeguate alla loro situazione umana personale e sociale. Questo processo reciproco di chiarimento ed integrazione trasforma le religioni, ma non in modo casuale, bensì secondo la loro dinamica immanente.
Un contributo concreto del partner cristiano del dialogo potrebbe per es. essere questo: quando Paolo incorraggia a esaminare ogni cosa e a tenere ciò che è buono (1.Tess 5,21), il concetto di bene necessita di un criterio. Paolo ne indica tre.

5. Tolleranza come conseguenza della intuizione della unità di tutto quanto vive

In uno dei suoi saggi sulla fondazione dell’etica, A.Schopenhauer7 ha analizzato, sviluppando posizioni di Rousseau, la compassione come uno degli impulsi all’agire morale, e si è domandato: come è in realtà possibile che uomini, non per uno stato di necessità e senza che essi vengano costretti, si sacrifichino improvvisamente per gli altri, non salvaguardino in una situazione il loro proprio interesse, ma salvino un altro uomo a rischio della propria vita? Ed in effetti storie con tali contenuti vengono raccontate in continuazione, e non soltanto il sacrificio della madre per il figlio – per il quale potrebbero essere addotti come spiegazione gli stretti legami genetici – bensì il sacrificio per esseri umani assolutamente estranei, in cui è esclusa ogni forma di vantaggio personale. Schopenhauer dice che ciò accade perché nell’istante del sacrificio di sé, in cui non c’è tempo per la riflessione e per la messa a confronto degli interessi, nell’agire spontaneo di colui che salva irrompe una intuizione metafisica, quella cioè che l’altro essere umano che è in pericolo e che forse vuole proprio darsi la morte, non è affatto un essere umano altro, e che io stesso sono lui o che l’altro è un aspetto di me, che fra noi due non c’è affatto una differenza assoluta. Ad ogni modo irrompe qui una intuizione spontanea che culmina nella visione della unità di tutto ciò che vive.
Proprio nell’istante di questa intuizione si compie ciò che noi abbiamo imparato all’inizio con la storia del cinese e del suo cavallo, e cioè che l’orizzonte entro il quale noi normalmente giudichiamo e viviamo non è l’orizzonte vero e conclusivamente valido del nostro essere. Com-passione è l’irruzione, l’allargamento d’orizzonte, l’esperienza che l’altro essere sofferente, io stesso e Dio, che venero, in fondo non siamo separati l’uno dall’altro.

6. Tolleranza come principio di comunicazione interculturale

1. In una situazione caratterizzata da condizioni interculturali bisogna in linea di principio tener conto di differenti costruzioni di ‘religione’ o anche di matrici di valori, in quanto nelle società pluraliste moderne si formano prodotti di interferenza o sintesi.
2. Il problema religioso nelle società pluraliste moderne si pone in questo modo: se in conformità ai principi affermati dall’illuminismo ciascuno può e deve diventare felice a modo suo, allora bisogna domandarsi come questo ‘modo’ possa formarsi. Nelle religioni tradizionali ciò avveniva:

Nella socializzazione religiosa moderna manca spesso la appropriazione critica e, anziché pervenire ad una volontà di conoscenza di fronte alla propria relatività, ci si ferma soltanto al richiamo al possesso (della verità, dell’autorità del guru ecc.). In considerazione del pluralismo però il richiamo al possesso della verità (attraverso rivelazione, esperienza soggettiva ecc.) non è capace di discorso e perciò teologicamente insufficiente. Il richiamo ad una autorità (della Scrittura, di una istituzione ecc.) può essere sufficiente per me e per un gruppo che si dà la propria identità proprio grazie all’accettazione di questa autorità. Ma sul piano apologetico, nel senso di una mediazione discorsiva di plausibilità, non lo è. Poiché è necessario che dapprima la plausibilità venga fondata, risulta anche difficile cercare ed elaborare regole per il discorso religioso pluralistico.
Configurare tali regole del discorso è uno dei compiti più urgenti per la teologia in una situazione segnata dalle condizioni del discorso pluralistico.

3. La precisione linguistica è estremamente importante per la percezione della realtà sociale e per il dibattito pubblico. Le società moderne sviluppano modelli di socializzazione che sono diversi dalle religioni ‘classiche’. Per questo non hanno presa i concetti tradizionali ( per es. per ciò che è ‘religione’ o un rito con forza di legame sociale).

4. Le istituzioni formative dovrebbero avere cura di rendere possibile una distanza critica sia verso i modelli linguistici tradizionali, sia anche verso i concetti della autopercezione dei gruppi, e di elaborare all’interno del discorso fra tutti i partecipanti criteri che vengano applicati a tutte le correnti religiose presenti nella società pluralista (includendo le Chiese), affinché si produca la maggior trasparenza possibile.

5. Da quanto detto derivano conseguenze per la modalità di principio della teologia. Mi siano consentite alcune poche osservazioni su questo punto:

L’interculturalità rende inevitabile da un lato il problema storiografico delle diverse condizioni e dei differenti modelli di costruzione dei valori in spazi linguistici e religiosi diversi, e dall’altro lato il problema ermeneutico delle condizioni di comunicazione fra differenti sistemi di valori nelle società odierne. Gli sforzi teologici (e anche di altro tipo) per la formazione culturale dovrebbero perciò avere lo scopo di render conoscibili le condizioni e le varianti sistemiche dei processi di formazione dei valori.
Vorrei brevemente discutere questo principio astratto mediante l’esempio concreto della questione della presentazione (Vermittlung/mediazione) della religione in una società pluralista, quindi dell’insegnamento della religione, poiché non si tratta di una questione puramente pragmatica, bensì di una questione eminentemente teologica: quale forma dell’insegnamento della religione o quale forma della mediazione di valori culturali/religiosi disparati risulti meglio all’altezza dei compiti e delle attese dello stato democratico e degli interessi dei gruppi religiosi che entrano l’un l’altro in rapporto in una situazione di pluralità. Tutto questo è controverso e dovrebbe essere discusso dal punto di vista della mediazione di competenza in una comunicazione interculturale: vengono smantellati pregiudizi e viene offerto aiuto al compimento di scelte personali mediante il fatto che vengono rese disponibili conoscenze ampie ed obiettive sia sulla propria tradizione di valori sia almeno su un’altra tradizione estranea; e questa mediazione di tradizioni non deve essere guidata da interessi istituzionali di qualche potere. E cioè io difendo e sostengo la tesi che la metodologia della scienza della religione venga accetta come presupposto della questione teologica della verità. In ciò la scienza della religione e la teologia non sono né identiche né del tutto separabili; esse sono piuttosto due metodi del tutto diversi che peraltro trattano (in ampia misura) un medesimo oggetto.
Oggetto della scienza della religione è la considerazione metodologicamente consistente e la riflessione storica ed ermeneutica di uomini, gruppi e contesti sociali, che si definiscono mediante determinate rappresentazioni di fede e di valori, riti e norme, e cioè attraverso identità poste culturalmente. Essa si occupa nelle sue sottodiscipline di fenomeni religiosi in connessione con la specifica storia sociale e culturale ad essi relativa e inserisce anche i modelli attuali di interazione fra le religioni nella comprensione della dinamica dei processi storici di questo tipo. L’unità della scienza della religione risulta dalla posizione del problema dei modelli generali, che essa descrive (in modo neutrale rispetto ai valori) e classifica in singoli contesti storici – questa classificazione coordinata a strutture generali implica però valutazioni e norme descrittive, che vengono chiarite nel discorso autoriflessivo della scienza della religione. L’obbligo alla neutralità valutativa e la struttura dei modelli di valutazioni immanente ad ogni comprensione costituiscono per la scienza della religione una contraddizione produttiva, poiché essa ricerca strutture molto generali che ottiene dal confronto fra contesti storici distinti e fra modelli linguistici, e utilizza questi ultimi, inversamente, come base per la interpretazione di tale strutture. Ciò significa: la scienza della religione deve condurre un discorso autoriflessivo riguardo alla tensione strutturale fra valori e neutralità valutativa nel processo della conoscenza, ed in ciò essa non si vincola a valutazioni specifiche di tipo contenutistico.
L’impianto del problema è in questo caso posto in relazione alla socializzazione religiosa dall’esterno verso l’interno. Ciò significa: la scienza della religione ricerca ed indaga primariamente fenomeni religiosi e solo secondariamente le rispettive strutture fondative immanenti alla religione, come ad es. i sistemi di credenza,in quanto queste giudicano normativamente i rispettivi fenomeni.
Oggetto delle teologie (in plurale) è la considerazione metodologicamente consistente e la riflessione storica ed ermeneutica di contenuti di credenza e di modelli di verità e dei loro effetti sociali, come cioè essi influenzino uomini, gruppi e contesti sociali all’interno della struttura specifica di una tradizione. A questo proposito i modelli di percezione, nel modo in cui risultano dalla riflessione di questa storia specifica, vengono posti in relazione, per via di contrasto e per via di congiunzione, cioè comparatisticamente, con altre tradizioni (confessionali e religiose) e con altri modelli di interpretazioni. L’impianto del problema è in questo caso posto in relazione alla socializzazione religiosa dall’interno verso l’esterno.
Mentre quindi la formulazione della domanda teologica ha come punto di partenza una specifica tradizione in quanto orizzonte costitutivo del problema, la scienza della religione espone più contesti strutturati da tradizioni e più contesti linguistici come orizzonte costitutivo del problema, in modo tale che le caratteristiche dell’oggetto specifico vengano mostrate in una cornice linguistica astratta per via di differenza rispetto ad altri oggetti specifici. Scienza della religione e teologia hanno quindi

Esse quindi sono complementari, ma non possono riassorbirsi o dissolversi l’una nell’altra. La tensione fra le due rende possibile un discorso critico in ambedue le direzioni, che può e deve stimolare gli aspetti critico-metodologici in modo autoriflessivo sia all’interno della scienza della religione che all’interno della teologia.

Certo ci sono state e ci sono tensioni fra scienza della religione e teologia. Esse sono vecchie quanto la storia della scienza della religione, che si è potuta affermare e diffondere a partire dalla seconda metà del secolo XIX, attraverso cattedre in Svizzera, Olanda, e poi in Inghilterra negli Stati Uniti e in Scandinavia. Solo la Germania è rimasta esclusa da questo sviluppo, e ciò, tranne qualche eccezione, è rimasto così fine ad oggi.
Il giudizio di Adolf von Harnack, che sia sufficiente lo studio di una sola religione per capirle tutte, presuppone la pretesa politica di assolutezza dell’Occidente a dominio cristiano, che però non era stata fondata empiricamente, ma era connessa al pathos culturale eurocentrico in corrispondenza con lo spirito dei tempi. Queste premesse sono state contraddette già più di 20 anni fa da Wolfhart Pannenberg (in Wissenschaftstheorie und Theologie), quando sulla base di motivazioni teologiche ha posto l’esigenza di uno studio delle religioni senza altra finalità estranea. La scienza della religione ha secondo Pannenberg il compito di una «fondazione della teologia», poiché essa è per Pannenberg la cornice entro la quale la teologia enuncia se stessa specificamente secondo una modalità autoriflessiva e secondo una modalità ermeneutica – certo però soltanto se nella scienza della religione giunge a espressione il contenuto proprio della realtà sperimentata nelle religioni, e cioè se la pretesa religiosa di verità viene presa seriamente in considerazione in senso metodologico e se diventa oggetto di riflessione in quanto fenomeno bisognoso di interpretazione:

«Solo nella prospettiva di una storia mondiale delle religioni può essere reso pienamente visibile il significato di una singola religione e del suo attuale livello di evoluzione. Le scienze della religione formano così la cornice entro la quale deve trovare il proprio posto anche la teologia cristiana con tutte le sue discipline…La scienza della religione dovrebbe venire separata, in quanto disciplina teologica fondamentale, dallo studio della tematica missionaria. Certamente però in questo modo viene posto in dubbio se quest’ultima debba trovare espressione in una disciplina teologica propria.»8

Risulta chiaro così che una scienza della religione consapevole da un punto di vista ermeneutico non può occuparsi dei testi e della strutture di organizzazione religiosa del passato soltanto in forma additiva, ma si caratterizza soprattutto per lo studio dei modelli di interazione religiosa nella storia e nel presente.
Proprio per evitare a questo riguardo il pericolo del dilettantismo, metodi e prospettive di ricerca devono venire interconnessi fra le diverse facoltà, poiché la metodologia scientifica in tutte le discipline riesce a tenere in considerazione le interdipendenze sistemiche fra fenomeni e processi in misura molto maggiore di quanto accadesse prima.

Per quanto la teologia cristiana è interessata alla contestualizzazione entro un riferimento temporale (e non soltanto alla indigenizzazione folcloristica in mondi simbolici soggetti a interruzioni della tradizione), essa deve, con la sua competenza, partecipare ad una corrispondente percezione religiosa del presente.

Note:
1 Peter L. Berger, From Secularity to World Religions, in: A Rumor of Angels, New York 1990,139
2 Tommaso d’Aquino, De veritate q. 1,1.1; Summa theol. q.16, a.2 ad 2
3 C.F.v.Weizsäcker, Der Garten des Menschlichen, cit.,70
4 P.L.Berger, Der Zwang zur Häresie. Religion in der pluralistischen Gesellschaft, Frankfurt 1980
R.Panikkar, The invisible Harmony: A Universal Theory of Religion or a Cosmic Confidence in Reality?, in: L.Swidler (a cura di), Toward a Universal Theology of Religion, New York 1987, S.130
6 In modo simile giudica ad es. Meister Eckhart proprio anche quando «l’istante eterno» diventa reale nella presenza dello spirito (Lateinische Werke, Stuttgart 1936 segg. Vol.3, p.476); cfr.S.Kunz, Zeit und Ewigkeit bei Meister Eckhart, Diss. Tübingen 1985, p.183
7 A.Schopenhauer, Preisschrift über die Grundlage der Moral (ed. H.Ebeling), Hamburg: F.Meier 1979,106 e 159 segg.
8 W.Pannenberg, Wissenschaftstheorie und Theologie, Frankfurt: Suhrkamp 1973, 364


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